Flaming Lips – A Spoonful Weights A Ton, Mason & Dixon

DIXON

Entro nel negozio e mi ritrovo catapultato dentro un numero del “Buscadero”. Nulla contro la storica rivista: diciamo che sono io a non rientrare nel loro target di utenza.

Frequento negozi di dischi da quando, magnanimi, i miei genitori cominciarono ad accordarmi la paghetta. Da allora, tra quelle mura ho speso una somma che recenti studi hanno stimato essere sufficiente alla costruzione di parecchie infrastrutture scolastiche nel terzo mondo. Chiaramente, non provo alcun senso di colpa, perché dubito che sarei sopravvissuto senza puntellarmi continuamente con la plastica dei cd o il cartone dei vinili.

Mi guardo intorno cercando qualche appiglio… Spero che un disco dei Fall venga in mio soccorso o – che ne so – che si dia luogo a un armistizio con la mediazione di Iggy Pop o al limite di un Bowie. Lo stereo del negozio, invece, nel frattempo ha cominciato a suonare gli Humble Pie.

Facciamo il punto: appena trasferito in città, sono andato alla ricerca del negozio di dischi più vicino. La ricerca non ha dato grandi frutti: ce n’è solo uno. E dunque eccomi qua ad ascoltare gli Humble Pie e non mi capitava da parecchio tempo, a dire il vero. Certo, Steve Marriott è sempre Steve Marriott, ma il fatto è che – accidenti! – qua tutto sembra essersi fermato al 1974. L’utenza sembra perfettamente in tono con la musica del luogo, tra ragazzi con la maglietta di John Fogerty e signori di mezza età (ok, anche io non sono certo di primo pelo, ma datemi ancora un po’ di tempo, prima di ritrovarmi a comprare l’ultimo di Van Morrison).

Copie di Classic Rock mi guardano dagli scaffali ed ho appena visto un cofanetto dei Jethro Tull fissarmi sinistro dal bancone del negozio.

Nonostante il proprietario abbia l’aria simpatica e non sembri affatto il negoziante snob tipico di questa categoria professionale, comincio a sentirmi scoraggiato. Poi ecco che in mio soccorso arriva un cd dei Flaming Lips appoggiato al bancone (sì, proprio accanto ai Jethro). Il disco è diventato oggetto di discussione tra la clientela: pomo della discordia, nonché pietra della scandalo pare essere il rifacimento da parte della band del classico pinkfloydiano “ Dark Side Of The Moon ”.

“Una merda!” dice qualcuno, “Un affronto!” un altro, “Perbacco” annuisce un terzo.

Poi c’è un tipo che sembra sfilarsi dalla pubblica esecuzione. Non è molto alto, ha la barba lunga dell’uomo saggio e dentro pare interamente rotto, ma è come se la cartilagine che lo compone si fosse irrigidita al punto da tenere ben salda tutta l’impalcatura. Approccia un tentativo di difesa d’ufficio di Wayne: probabilmente fa parte della Chiesa dei seguaci di Padre Coyne, ma è in netta minoranza e in territorio ostile. Io, per il momento, non mi espongo: voglio prima accertarmi di non essermi sbagliato circa la sua fede… ho pure il sospetto che il cofanetto dei Jehtro Tull sia uno dei suoi acquisti di giornata.

Però poi se ne esce con un definitivo: “ L’idea di psichedelia, che ho in mente io, non ha a che fare con la forma, ma con il concetto di viaggio. La psichedelia è un insieme di colori e non di note ”.

Non male, il ragazzo.

Decido di farmi avanti e, per attaccare discorso, mi ritrovo a illustrare la tesi del “ secondo brano della scaletta ”. Uno dei miei cavalli di battaglia.

D: “Sono d’accordo. I Flaming Lips sono psichedelici proprio per l’idea di viaggio che caratterizza tutta la loro musica. Questo disco poi è uno dei loro migliori: “The Soft Bulletin”. Quando l’ho ascoltato la prima volta, ho subito capito dopo pochi minuti che era un capolavoro”

M: “Eh, bè, certo: Race for the prize è uno dei migliori inizi di tutti i tempi!”

D: “Si, l’intro con le batterie pestone e le tastierone… ma no: ho capito di che disco si trattava subito dopo l’ascolto di “A spoonful weighs a ton”

M: “Il secondo brano?”

D: “Esatto: il secondo brano. Non conosci la regola del secondo brano?”

M: ”No, francamente no”.

D: “Dunque, se vuoi capire davvero e fin dai primi ascolti che tipo di disco stai ascoltando ti basta sentire la seconda canzone…”

M: “Mmm…”

D: “Si, perché il secondo brano è il pezzo medio che dà la cifra generale dell’intero disco!”

M: “Comincio a capire cosa intendi…”

D: “Il primo pezzo è fuorviante perché le band si giocano subito l’asso per aprire alla grande e catturare l’ascoltatore. Gli altri pezzi da novanta vengono poi piazzati intorno alla terza, quarta o quinta posizione. Ascoltare uno dei questi pezzi dunque potrebbe essere fuorviante… Quindi, se vuoi farti un’idea veloce del disco senza addentrarti troppo nella scaletta, basta andare subito al secondo pezzo e capisci qual è la qualità media del disco”.

M: “Mmm… scusa mi ricordi qual è il secondo pezzo di Revolver?”

D: “Beh… con le band in cui la scrittura è affidata a più persone, è più difficile. Il criterio può diventare un po’ più approssimativo… ma nel complesso rimane assolutamente valido!”

M: “Mi sa che tu sei uno che dice un sacco di cazzate.”

(Continua….)

MASON

Da ragazzino avevo una passione per la sit-com americana conosciuta in Italia come Cin Cin. La serie era ambientata in un bar di nome “Cheers” frequentato sempre dai soliti (strampalati) avventori. Ero convinto che mi piacesse solo per il tipo di humour e per i personaggi strambi, ma con il tempo ho capito quello che in fondo mi attirava maggiormente: ognuno di noi ha o è in cerca del proprio “Cheers”. Quel posto dove dimenticare gli affanni della vita quotidiana, circondati da persone che condividono le proprie passioni o le proprie debolezze e peculiarità. Un rifugio che sa di seconda casa, dove recarsi perché – come dice la nostalgica sigla in salsa soft-rock – “ everybody knows your name ”. Beh io quel posto l’ho trovato e da diverso tempo ormai, ma non è un bar: non ci vado tutte le sere (anzi ci vado di giorno) e non esco alticcio, ma ebbro di musica e soprattutto con il portafogli alleggerito, perché si tratta di un negozio di dischi. E poi non tutti “conoscono il mio nome”, ma probabilmente si ricordano più facilmente di me come quello delle “ragazze con la chitarra” e dei “cantautori austeri e depressi” o il tizio che comprava anche le scorregge dei Phish. Quello che conta però è che, anche se non ci si conosce, un saluto non manca mai, come segno della consapevolezza di essere fatti della stessa pasta e malati della stessa malattia. Già, un brutto morbo che si contrae in diverse forme che vanno dalla demenza prog-ressiva alla punk-reatite acuta, dal completismo allo stadio terminale all’horror vacui (il terrore di uscire dal negozio a mani vuote).

In questi anni di frequentazione, uno dei miei passatempi preferiti è sempre stato quello di osservare i nuovi arrivati che varcano la soglia, mentre me ne resto appoggiato al solito punto del bancone, ormai ergonomicamente consunto. Ne ho visti arrivare (e sparire…) a bizzeffe, tanto che, senza falsa modestia, posso dire di aver messo a punto un sistema di classificazione degli avventori praticamente infallibile. Vi risparmio l’elenco completo delle categorie, ma vi voglio raccontare un caso emblematico.

Un giorno entra questo tizio. Lo squadro con la tipica supponenza del veterano: alto e magro, a occhio un po’ più giovane della media (bene: c’è sempre bisogno di carne fresca), ben vestito, capelli e barba curati (provo un moto di fastidio, mentre attorciglio la mia barbona arruffata), tono pacato e accento siciliano (bene: un po’ di esotismo non fa mai male). Mai stata così semplice una classificazione: trattasi di un “Superficiale” ovvero colui che “a me la musica piace tutta”, salvo il fatto che il suo concetto di genio si ferma ai Pink Floyd di Dark Side o ai Dire Straits. Comunque, mentre si avvicina al bancone, lo immagino già esordire con la richiesta dell’Immersion Box di Wish You Were Here o chiedere uno di quei dischi Jazz sputtanati tipo “Kind Of Blue” o….

“Ciao, ce l’hai l’ultimo dei Liars?”

Dopo un fisiologico attimo di panico e sorpresa, incasso il duro colpo con la classe e la tipica arroganza del veterano che sa di non sbagliare mai, tranne quando sbaglia. Tiro una riga mentale sul “Superficiale” e mi rendo conto di avere in realtà di fronte a me un classico “L’alternativo” . Avete presenti quelli a cui in realtà non frega un cazzo della musica, ma comprano due o tre dischi fuori dalle righe solo per darsi un’aria di superiorità o per rimorchiare (sì, mi hanno detto che certi dischi possono aiutare…)? Eccolo, è lui!

Non voglio rischiare di sbagliare ancora e decido quindi di sottoporlo al mio infallibile esame: lo Spoonful Test. La prova consiste nel chiedere al proprietario di mettere su “The Soft Bulletin” dei Flaming Lips, partendo dalla seconda canzone, “A spoonful weighs a ton”. Questo consente di analizzare le reazioni del soggetto al disco, evitando però banalità del tipo “Oh, Race for the prize! Uno dei migliori inizi di tutti i tempi!”. Insomma facile conoscere l’attacco di un disco, decisamente più interessante invece il pensiero sul secondo brano….

All’attacco di Spoonful le mie antenne si drizzano immediatamente, notando la reazione di familiarità del Soggetto con i Flaming Lips, che proprio a quel punto mi rivolge la parola: “Ah… il disco è partito dal secondo brano “A spoonful weighs a ton”. Conosci la teoria del secondo brano?”

Il terrore mi si dipinge sul volto: non solo infatti ho sbagliato ancora classificazione, ma soprattutto mi trovo di fronte a uno dei tipi più pericolosi, “Il Professorino” : colui che ha una teoria su tutto.

Al che metto in atto l’unica difesa possibile: il contrattacco a oltranza.

M: “No e direi che si tratta sicuramente di una cazzata”

D: “No, ascolta, prima! Dunque: se vuoi capire davvero e fin dai primi ascolti che tipo di disco hai davanti, ti basta sentire la seconda canzone…”

M: “Mmm…”

D: “Si, perché il secondo brano è il pezzo medio che dà la cifra generale dell’intero disco!”

Vado all’attacco!

M: “Scusa, mi ricordi qual è il secondo pezzo di Revolver?”

D: “Beh, con le band in cui la scrittura è affidata a più persone è più difficile. Il criterio può diventare un po’ più approssimativo… ma nel complesso rimane assolutamente valido!”

Sono disorientato dalla faccia tosta del tizio e non so bene come ribattere perciò:

M: (Risatina sarcastica)

D: “Il primo pezzo è fuorviante perché le band si giocano subito l’asso per aprire alla grande e catturare l’ascoltatore. Gli altri pezzi da novanta vengono poi piazzati intorno alla terza, quarta o quinta posizione. Ascoltare uno dei questi pezzi dunque potrebbe essere fuorviante… Quindi, se vuoi farti un’idea veloce del disco senza addentrarti troppo nella scaletta, basta andare subito al secondo pezzo e capisci qual è la qualità media del disco”.

C’è da dire quella appena riportata è solo una sintesi, perché il monologo del presunto Professorino va avanti per svariati minuti.. Comunque, mentre parla, lo sgomento non accenna a calare, anzi sento sopravvenire una sensazione di inquietudine, perché inizio a comprendere che, in quelle che avrei desiderato considerare solo delle farneticazioni, c’è qualcosa che non solo comprendo, ma – dannazione – condivido. Mi riferisco alla ricerca – per quanto folle o senza speranza – di un metodo per capire a fondo la musica; il desiderio di provare a tracciare confini e disegnare mappe. E non per un piacere compilatorio o enciclopedico, ma piuttosto per provare a vivere in maniera completa la propria passione, scomponendo il flusso musicale che ci sommerge e scorre sopra, sotto e intorno a noi. Capisco quindi che la follia del suo interminabile monologo somiglia pericolosamente alla mia e che per quanto diversi all’apparenza, apparteniamo alla stessa categoria che mi piace attribuirmi, quella degli “esploratori”.

(continua…)

IL NEGOZIANTE

Siedo dietro questo bancone da circa quarant’anni. Mi sa tra l’altro che tra un po’ mollo tutto e chiudo baracca: la gente non se li merita più i dischi e forse anche io ho un po’ di colpa… ma, che volete? Provateci voi a farvi piacere Yves Tumor, quando il primo disco che avete comprato nella vostra vita è stato “Led Zeppelin III” … e lo avete comprato nell’anno di uscita!

Piuttosto, mi dispiace per questo poveri Cristi che si ritrovano qua dentro da svariati anni a chiacchierare per lo più di niente o al massimo di Peter Gabriel e Phil Collins. Dove andranno se chiudo il negozio? Al centro commerciale? Non sono i tipi… piuttosto restano a casa a riascoltare i Marillon. Che brutta fine… Poi dicono che stanno sparendo i luoghi di aggregazione.

Quei due invece sembrano fatti l’uno per l’altro: hanno cominciato a chiacchierare di un disco dei Flaming Lips (sì, ho dovuto rimetterlo su perché Mason mi ha chiesto, per l’ennesima volta, di fare lo Spoonful test) e, dopo aver snocciolato tutta la discografia della band a partire dal primo EP dell’85 (roba che se chiedete di farla a Wayne Coyne vi guarda come foste matti…), si sono lanciati in una discussione su una teoria circa “la seconda canzone dei dischi”. Certa gente non c’ha proprio niente da fare… Io almeno qui sto a lavorare.

Ad ogni modo, dico che mi sembrano fatti l’uno per l’altro, perché uno parla a raffica con quella che mi sentirei di definire come fastidiosa turbo-logorrea e l’altro lo guarda arcigno mentre tace e dissente. Assolutamente perfetti.

Che poi se solo la piantassero di chiacchierare, potrebbero gustarsi il sognante intro del brano, puntellato da quel piano rigoglioso e arricchito da un barocchissimo mellotron (o quello che è) con Wayne che canta con quel filo di voce che, più che a tenere la malferma intonazione, deve impegnarsi a evitare il colpo di tosse che da un momento e l’altro sembra stia per spezzare la linea vocale. Sublime. Poi il colpo di genio: il break ritmico destrutturato dove a calpestarsi l’uno con l’altro sono la batteria, i synth e le chitarre. Se solo ascoltassero invece di chiacchierare, quei due capirebbero che il pop è un giocattolo e che i Flaming Lips sono qui per smontarlo, pezzo per pezzo, come fossero dei bambini capricciosi… e chiunque ha avuto dei bambini sa bene come questi siano le creature più poetiche dell’universo. Esattamente, come quel bambinone, incapace di crescere, di Wayne Coyne. Sempre sia benedetto.

Torno a decifrare le loro chiacchiere e sento dire al nuovo:

“Sarebbe bello ci fosse qualcuno capace di tracciare confini e disegnare mappe. Per scomporre il flusso musicale che ci sommerge e scorre sopra, sotto e intorno a noi. Ma occorre farlo con amore e passione. Questa può essere l’unica scusante per giustificare la violenza insita in ogni confine, che non può – per sua natura – che violentare il territorio che divide.”

Mason aggiunge: “Bella questa frase del confine come violenza…”

“Si, è come in quel romanzo di Thomas Pynchon… Mason & Dixon”

“Sarebbe un bellissimo nome per un blog…”

Si, mi sa proprio che lo chiudo questo negozi.

2 risposte a "Flaming Lips – A Spoonful Weights A Ton, Mason & Dixon"

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